157 // Abitare la nostalgia: l’impossibile ritorno // Lucia Guidorizzi legge “Stanze d’isola”
Riceviamo con gratitudine e gioia dalla poetessa Lucia Guidorizzi un’altra bellissima nota di lettura del libro “Stanze d’isola” di G. L. Asmundo, che stavolta, per desiderio dell’autrice stessa, ospitiamo tra le “stanze” del blog, ascoltando il suono del mare e il rintocco della pietra riverberarsi nel suo appassionato e profondo commento.
Abitare la nostalgia: l’impossibile ritorno di Giovanni Luca Asmundo
di Lucia Guidorizzi
G.L. Asmundo, “Stanze d’isola” edizioni Oèdipus, 2018
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“Sirene ormai livide
continuano a cantare
impossibili ritorni.”
VI
Attraversare con la lettura “Stanze d’isola” è un’esperienza da cui si esce trasformati, è come immergersi in un rebirthing poetico che permette, attraverso la gioia e il dolore delle immagini che ci sfilano davanti agli occhi, di ritrovare la propria patria ancestrale, luogo agognato ed impossibile, in cui la sonorità della parola diviene respiro di consapevolezza che riconduce alle origini.
Già i versi di Ibn Hamdis, poeta arabo-siciliano, nato in Sicilia e vissuto lontano dalla sua isola, messi in esergo al libro, rivelano la parabola poetico-esistenziale scritta e vissuta dall’autore stesso
“E chi ha lasciato il cuore a vestigio di quella dimora, /a quella brama col corpo a fare ritorno”.
La poesia di Giovanni Luca Asmundo entra in profonda consonanza con la qualità del territorio: un territorio, quello della Sicilia, colmo di tracce mnestiche, ma anche di faglie, spaccature e fratture operate dal tempo e dalla storia.
Il libro si snoda in quattro movimenti: Prologo, Parodo, Epiparodo, Esodo, secondo il ritmo della Tragedia greca.
E tragico è il percorso visionario, carico di echi e risonanze che trascina il lettore in un sonno meridiano, denso di sogni, simile al sonno al quale nelle estati torride si abbandonavano i nobili siciliani tra il XVI e il XVIII secolo. Quando l’estate si faceva feroce, per sfuggire al caldo torrido ci si rifugiava nelle stanze chiamate dello scirocco, grotte scavate nella pietra che davano ristoro e riparo.
In quella fresca penombra si manifestavano i daimones che trascinavano la mente oppressa dalla calura verso altri livelli di consapevolezza.
La poesia di Giovanni Asmundo è sogno archetipico, evocazione mitica di un passato pregno di memorie, in cui si mescolano tracce fenicie, puniche, greche, bizantine, arabe, normanne come in un crogiuolo alchemico, ma è anche capace di investigare le dissonanze e le ombre di un presente immobile ed enigmatico.
Sfilano, tragici e fatali, gli abitanti dell’isola: donne e uomini antichi, stirpi di Giganti, Ciclopi e Lestrigoni.
L’Isola è circondata dal mare, quel Mare Nostrum misterioso e cangiante che continua ad intessere i suoi poemi, fatti di seduzioni, sbarchi e naufragi.
Il libro si fa viatico per ritrovare le radici perdute dell’essere, per imparare a riconoscere i simboli che ancora sono vivi ed operanti in ognuno di noi, per coltivare la terra dell’isola e i territori interiori nel senso più profondo della parola (colere in latino significa sì coltivare, ma anche aver cura, onorare, venerare, celebrare).
La sezione finale del libro, Esodo, si chiude con una poesia che descrive i Ciclopi che abbandonano l’isola lasciandoci con un’immagine che assume la valenza di un enigma e che fa ricordare la tela di De Chirico del 1914 intitolata appunto “L’enigma della partenza” proiettando così i lettori in una dimensione metafisica:
“Quando i Ciclopi lasciarono l’isola
i piedi toccarono l’acqua e avanzarono
il capo basso e il cuore muto
dando le spalle all’agonia di cenere.
E quando, con mani non abituate
Ebbero slegato gli ormeggi dagli scogli
In balia degli schizzi di schiuma fumosa
E gli strilli delle capre legate alle zattere
Senza voltarsi, piansero lacrime cispose.”
XXXV. Esodo
Il libro si apre e si chiude con un commiato, come per sottolineare l’impossibile ritorno ad un luogo dove si esiste da sempre e che continua ad esistere interiormente, pur nella distanza.
Sete di ricongiungimento dunque, di ritornare a quella Matria che è l’alveo della cultura e della civiltà, ma anche lucida ed amara consapevolezza che questo ritorno è impossibile, che questa sete non potrà mai estinguersi.
“Quando avremo finito di dimenticarci di noi stessi
e saremo scomparsi del tutto
resteranno soltanto le pietre,
restituite alle pietre.”
II. Parodo
E le pietre divengono la voce della poesia.
Lucia Guidorizzi
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Fotografia di copertina: Daniele D’Antoni, Isola Lachea (dal progetto Peripli).
Il libro è reperibile anche su IBS: https://www.ibs.it/stanze-d-isola-libro-giovanni-luca-asmundo/e/9788873413066?inventoryId=106194720