216 // PORTOFRANCO 22 // Lucia Guidorizzi. Per i deserti campi

 

Sono lieto di riprendere i lavori della terza serie di Portofranco, proseguendo con la volontà di rispondere alle questioni poste dalla complessità che ci circonda attraverso attenzione e apertura.

Tra i diversi contributi di prossima pubblicazione cercherò di sottolineare, stavolta, alcuni aspetti legati a una comune declinazione dei temi del mutamento, dell’identità e dell’aver cura.

In particolare, sono felice di aver ricevuto e potere oggi pubblicare uno splendido articolo di Lucia Guidorizzi, che ringrazio, del quale condivido in pieno intenti e strumenti.
In questi tempi di mutamenti, il contatto con la realtà non può che essere un obiettivo di chiunque, come l’autrice, desideri agire «costruendo ponti per mondi a venire».

G. Asmundo

 

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Per i deserti campi

 

Nel 1988 l’antropologo e filosofo francese Marc Augè, famoso per aver introdotto il concetto di non-luogo, scrisse un libro molto interessante, “Un etnologo nel metrò” in cui osservava che, per studiare popolazioni remote, non occorreva spingersi in Amazzonia o nel cuore dell’Africa, ma bastava prendere la metropolitana a Parigi, per incontrare l’Altro nelle sue mille sfaccettature e complessità. Questa antropologia della vita quotidiana offre ancor oggi spunti di riflessione e ci permette di cogliere i cambiamenti avvenuti nel tempo e negli spazi urbani.

Quando ho deciso, all’inizio di Gennaio 2019 di aprire la porta di casa, per mettermi in cammino, attraversando la pianura padana del Nordest, da Venezia fin quasi a Bologna, seguendo le tappe del Cammino di Sant’Antonio, non avevo la minima idea di che tipo di esperienza sarebbe stata. Sapevo che non sarebbe stata un’esperienza paragonabile a quella di altri cammini che avevo percorso, se non altro perché il territorio mi era familiare, pregno di memorie, tracce e reminiscenze di un passato in cui avevo vissuto. Essendo questo cammino molto lungo ed impegnativo, ho deciso che sarebbe stato frammentario, l’avrei percorso a spizzichi e bocconi, quando se ne fosse presentata l’occasione, facendo una tappa alla volta, per poi ripartire successivamente dalla tappa dove lo avevo interrotto.

Così, da Gennaio a Maggio 2019 ho percorso complessivamente 150 km a piedi, facendo le seguenti tappe:

Camposampiero-Padova (Ultimo Cammino)
Venezia-Dolo
Dolo-Padova
Padova-Monselice
Monselice-Rovigo
Rovigo-Polesella
Polesella-Ferrara
Ferrara-Malalbergo
Malalbergo-Castelmaggiore

Avevo voglia di capire come stava cambiando il territorio intorno a me. Attraversando la laguna e poi camminando lungo gli argini di fiumi come la Brenta, il Piovego, il Po, ho percepito trasformazioni profonde e mutamenti irreversibili. Un po’ anch’io mi sono sentita come Marc Augè, attenta a cogliere il cambiamento nello spazio di ogni giorno, solo che invece di prendere il metrò ero una pellegrina solitaria (per –agri = attraverso i campi ) che attraversava le campagne nel 2019.
Nel mio cammino mi faceva pure compagnia Rutilio Namaziano, autore nel V secolo d. C. del poemetto “De reditu”. Il protagonista, in seguito alle invasioni visigotiche, è costretto ad abbandonare Roma, per tornare nella Gallia Narbonese, sua terra d’origine, per fronteggiare le scorrerie barbariche. Nel suo viaggio, che avviene per mare, poiché le vie di terra sono distrutte, ripercorre un’Italia in bilico tra due mondi, vede città abbandonate, rovine e ruderi, ma coglie anche nuovi fermenti di realtà in divenire, nuovi stili di vita che si fanno avanti (il diffondersi del Cristianesimo, il fenomeno del monachesimo). Il suo viaggio diviene così una sorta di ricapitolazione dei suoi vissuti, sfilano nella sua mente persone, incontri, ricordi mitologici ed esperienze personali ed emotive; per questo, percorrendo a piedi chilometri e chilometri attraverso la pianura padana, l’ho sentito vicino e mi ripetevo i suoi versi:

“Non si possono più riconoscere
i monumenti dell’epoca trascorsa,
immensi spalti ha consumato il tempo
vorace.
Restano solo tracce fra crolli e rovine
di muri,
giacciono tetti sepolti in vasti ruderi.
Non indignamoci che i corpi mortali
si disgreghino:
ecco che possono anche le città morire.”

Ogni bar in cui mi sono fermata per rifocillarmi era gestito da cinesi, stabilitisi ormai in Italia da parecchio tempo, che parlavano perfettamente l’italiano e anche il dialetto. La dimensione era ancora quella rurale del bar di paese, coi pensionati intorno ad un tavolo che giocavano a carte e, a Monselice, ho visto una scena che mi ha ricordato il film di Andrea Segre del 2011 “Io sono Li”. Ho notato un ragazzo, decisamente innamorato perso, che fissava con intensità una giovane barista cinese, stringendole le mani, mentre lei, seppur gentile nei suoi confronti, non pareva per nulla interessata alla faccenda.
Attraversando i campi, in solitudine sono riuscita a cogliere dettagli e sfumature che forse in compagnia mi sarebbero sfuggite: ho visto vecchie ville padronali divorate dalla vegetazione ed abbandonate, ruderi di case coloniche che testimoniavano un mondo contadino ormai estinto e le villette geometrili di zanzottiana memoria già avviate all’obsolescenza, residui di un mondo che agli inizi degli anni Settanta era ancora pieno di speranze e di aspettative, ormai disattese. Crescita, benessere e sviluppo sono ormai sfumati da tempo per lasciar posto ad un’inevitabile entropia: genitori invecchiati o morti, figli lontani, non c’è più nessuno che taglia l’erba del giardinetto, la cuccia del cane è vuota, gli alberi sono cresciuti troppo.
Alle finestre di qualche condominio, si vedevano donne velate e nell’aria all’ora di pranzo si sentiva odore di cibi speziati.

 

Eppure quel territorio in gran parte era ancora pregno di ricordi e memorie che mi appartenevano, lì avevo avuto legami, affetti, lì avevo cominciato a lavorare, su e giù per quelle campagne avevo amato, passeggiato, lavorato, anche se ora mi sentivo straniera.
Poco dopo Ferrara, in una zona di risaie, sono giunta camminando a Gallo, un paesino in cui c’è una popolazione prevalentemente magrebina che crea un pittoresco contrasto: si vedono passeggiare sotto i portici, tra le chiese e le case coloniche, donne velate e uomini in djellaba.
La popolazione è mutata e questo cambiamento è avvenuto da tempo: anche camminando lungo gli argini delle periferie di Padova, Rovigo e Ferrara, si poteva notare una dimensione multietnica fortemente pronunciata che si mescolava alla realtà autoctona spesso in maniera difficilmente percettibile, tra gente che correva facendo jogging, persone che portavano a spasso il cane o andavano in bicicletta.
I mutamenti sono già avvenuti, il cambiamento ha già portato i suoi effetti: paesaggio e veduta ormai si confondono, le immagini si sovrappongono, e la lettura degli elementi tradizionali non è più riconoscibile: la koinè si è dissolta per dar luogo ad una babele immaginifica.
In questa dimensione non più postmoderna e neppure surmoderna, ma piuttosto sincretistica, anche il paesaggio subisce interazioni ed ibridazioni ineludibili che procedono per contrasto ed assimilazione. Alle statue di Biancaneve e dei nanetti da giardino vengono sostituite mani di Fatima e banderuole che indicano la direzione della Mecca, insieme ai capitelli dedicati a Sant’Antonio o alla Madonna coesistono graffianti graffiti di writers. Ai viandanti solitari non resta che osservare il mutamento e prenderne atto, costruendo ponti per mondi a venire.

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Lucia Guidorizzi

 

 

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(Testo e foto di L. Guidorizzi. Articolo a cura di G. Asmundo)

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Lo spazio-rubrica “PORTOFRANCO” sul blog e su Radio Peripli libera, dedicato ai temi delle migrazioni, della convivenza, delle loro problematicità e risorse, nonché al valore politico della bellezza, è aperto all’invio di contributi sotto forma di poesie, prose, testimonianze e fotografie di quanti saranno interessati. Per ulteriori informazioni si veda il primo articolo “Portofranco 1”.
Apriamo questo spazio alle vostre voci. Tra indignazione, ferma resistenza e dolcezza. Per non smettere di porci quesiti. Per una cultura libera, non politicizzata ma etimologicamente “politica” per il proprio valore edificante per la comunità.