164 // Periplo delle Repubbliche Marinare // Cap. 2 // L’Arno, Firenze, Pisa

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Capitolo II

17.06.2018

Venezia e Mestre

Sospinto dal grecale e dall’alba, attraverso lentamente Venezia a piedi e la laguna in tram, quindi il paesaggio della realtà metropolitana della città, complessa e articolata.
Recuperata la valigia, scivolo accanto al mercato di Mestre, ancora silenzioso, agorà multiculturale quotidiana, costruita sulla coesistenza pacifica, tra i più interessanti e vivacemente integrati mercati del PaTreVe. Cuore della città incuneato tra i due bracci del fiume Marzenego, ma lontano dai riflettori, spazio collettivo in cui pessàri e frutaròli, le mani tinte di dialetto ed eredi delle marinerie e dei contadi veneti, oltre la conflittualità della vendita scherzano con pescivendoli e fruttivendoli bengalesi e pakistani, nella reciprocità di risa e pacche sulle spalle.
E salgo sul primo treno del viaggio, alla volta di Firenze.

Firenze

A Santa Maria Novella, tra le care barre d’ottone della stazione di Michelucci e l’ancora più cara vela di pietra dei Rucellai, gonfia di vento fortunato sulla facciata albertiana della chiesa, mi si riempiono gli occhi e la bocca storta di sale.
Per un’incredibile coincidenza riesco a incrociare, in questa Firenze nodale, il mio amico C. e sua sorella M., originari di Palermo e che attualmente vivono a Milano, i quali stanno per ripartire verso nord; li raggiungo per un saluto in via Nazionale, arteria della città contemporanea, le cui bocche più o meno ottocentesche di porte e vetrine si aprono su una mescolanza di salottini, negozi di catene globalizzate, androni anodizzati e condizionati, locali vegani per centrifughe, sprazzi di vecchio e selvaggio west, trapiantati angoli di Cina.
Salvato, stamattina, dallo zucchero dei miracolosi Savoiardi di C. (la mente che vola al Gattopardo), giungo alla pietas d’ottone del Battistero, alla genialità della Cupola e ai marmi tenui del campanile di Giotto.
Non scenderò in dettagli rispetto al peregrinare per la città tra molte memorie personali.

Riesco ad arrivare, come da tradizione, fino al lampredotto preferito, in via degli Albizi, consigliatomi anni fa dall’amico G. Lì divido una seggiolina d’appoggio per un bicchiere di rosso con una coppia toscana, chiacchierando e viaggiando dalla sòpa de trìpe veneta e friulana fino alla frittola e al pani ca’ meusa della Vucciria palermitana.
Adoro Firenze, la sua umanità residua e nascosta agli sguardi lungo le vie del centro, le sue meraviglie semplici e accuratamente piegate e riposte come vesti di seta e fiori. Le vite delle persone di ogni colore della pelle, scandite dal respiro dell’Oltrarno. La città ruscella ovunque ricchezza, una bellezza altera, sospesa nel tempo, così come attuale e plurale. A volte, percorrendone le strade, si percepisce quasi il pulsare di un petto di marmo bianco, cuore artistico, ma anche consumistico, di questo Paese. E con una nota amara, pensando agli Scritti Corsari, cammino tra il mercato ottocentesco, rivisitato in chiave “food” più o meno all’epoca dell’Expo di Milano, e le lunghe teorie di bancarelle di pelli, anno dopo anno più simili a plastiche. Trovo la città colmata da un’indicibile calca turistica, sotto un cielo azzurro con nuvole hopperiane, quasi finto anch’esso.
San Lorenzo si riposa senza facciata. Orsanmichele tace. Tra colori stupefacenti di Benozzo Gozzoli e pagine di Ruskin impolverate, assisto a mattinate fiorentine perdute tra maree di coni gelato. Piazza della Signoria è cotta dal sole, con le sue stratigrafie medievali volontariamente occultate sotto la pavimentazione. Ho visioni notturne…

E poi le Gallerie degli Uffizi piacevolmente rinnovate, ma forse afflitte dalla necessità di perpetua novità: nuove ali inaugurate, nuove mostre-evento, nuovi militari a presidio, nuovi cocktail sul Lungarno. Eppure, una brezza piacevolissima risale il fiume da ponente, si inchina sotto le botteghe di lusso di Ponte Vecchio, accarezza le acque, il paesaggio smeraldino di cipressi e marmo verde di Prato, raggiunge i rioni non turistici, dimessi, marziani, grondanti serena o afflitta umanità, tra acciottolati tranquilli, pergole, dimensioni familiari.
Non riesco a guardarla, lassù, San Miniato, scrigno di tante meraviglie. Respira, Fiorenza la bella, respira.

Pisa

Sono dunque diretto alle origini, a Pisa, verso la sua bianca riverenza romanica, le sue memorie pasoliniane e dantesche, i mercanti sodali del Gran Conte normanno, il fitto tessuto urbano medievale e, ancora oltre, la linea di costa conosciuta a memoria, grazie alla carta nautica “Da San Rossore a Portofino”, fondo della scrivania di legno di casa, laggiù a Palermo, sostegno delle mie sudate carte, ricalcata per anni, traguardando oltre le curve di livello che sfumano dall’idrografia all’orografia, i toponimi lontani, i fari disegnati e immaginati.
Corre fluido il treno, senza fischi, scorre come le acque dell’Arno che rincorriamo, rapide. Adesso tra Santa Croce e Fucecchio; chiome di pini romani e concerie lungo tutta la valle, prima di approdare nel porto sepolto, nella vasta laguna antica e scomparsa, alla confluenza con il fiume Serchio.
Giunto a Pisa, ritrovo gli amici A. e P. in compagnia di C., con i quali facciamo un’indimenticabile passeggiata, tra la gioia grande del nuovo incontro e la bellezza condivisa e abbagliante di ogni cosa.

Una signora su una panchina sembra scappata dalla superficie bidimensionale di un’opera di Keith Haring. Percorrendo Corso Italia, A. mi racconta di Livorno, mi introduce già al suo cospetto, differente rispetto all’eleganza di Pisa; non vuole influenzare le mie prossime impressioni o sorprese, ma descrive il suo fermento e tratteggia la sua vitalità, a cui inizio ad accostarmi progressivamente.

Al Ponte di Mezzo, sbuchiamo sull’Arno abbacinante. Mi fermo, scusate, mi affaccio, è una meraviglia, sono stato qui così tanti anni fa che ho ricordi precisissimi ma sotto forma d’immagini isolate, che riscopro poco a poco, come un album di fotografie. Respiro la brezza che arriva dal mare, sento il calore sulla pelle, strizzo gli occhi per il chiaroscuro, controluce.

Sorrido ai palazzetti simili a fondaci, tra poco ne osserverò uno con avancorpo e polifore, li immagino brulicanti di vita. Il fondaco parla un’unica lingua, simile in pianta, simile in sezione, simili le ogive, da qui fino al vicino Oriente e a tutte le sponde del Mediterrano, trovo incredibile l’ostinazione di una tipologia che si ritrova costante, pur con tutte le sue variazioni, tra pàndokoi, fonteghi e funduq: corpo architettonico fondato sulla parola. Tipologia di edifici mediterranea che, accostata fianco a fianco, spina a spina, nel suo moltiplicarsi e declinarsi ha intessuto le trame diverse, eppure così simili, delle singole tele di un’unica stoffa composita, le città costiere di questo bacino, di questo “continente liquido”, di un medioevo salso e luminoso.

Ci fermiamo davanti a San Michele in Borgo stretto, rubo delle foto della facciata beatamente in bilico tra massa ponderata romanica e merletti gotici, tra due epoche e concezioni, influenzata da riferimenti a scale geografiche diverse, ampliate. Un grappolo di palloncini molto contemporaneo mi riporta ad oggi e cerco di includerlo nell’inquadratura.
Mi incuriosiscono le iscrizioni dipinte, che in seguito scopro essere cinquecentesche e dedicate all’elezione di un Rettore universitario; mi diverte la variante goliardica di un’usanza medievale celebrativa che ho ritrovato altrove lungo l’arco tirrenico.

Ed eccolo, il Campo dei Miracoli che abbaglia. È ancora più stupefacente di quanto lo ricordassi. In questa luce pomeridiana, l’invaso spaziale è commovente, l’equilibrio delle masse altrettanto. Le superfici di pietra, che ricordo prima dei restauri, sono splendenti, forse troppo ripulite e sabbiate dagli interventi, ma tutto è meraviglioso. In particolare mi colpisce ancora una volta l’unità di tempo, luogo e ispirazione, quantomeno apparente, che può avere prodotto lungo un arco secolare questo manifesto politico-culturale della Repubblica Marinara. Gli archetti, le modanature, le decorazioni geometriche delle facciate che si animano come le onde di una cultura mediterranea e la riassumono, cristallizzandola.

Il Campo è invaso dal turismo di massa, ma al di là della consunzione consumistica del senso del luogo, generata dai rituali esperienziali da souvenir e dalla superficialità del nuovo mondo dell’immagine usurata, nonostante ciò la scena può apparire comunque come un incredibile brulicare di vita. E forse in questa luce e in questo pomeriggio fortunato si può perdonare tutto e sorridere e sentirsi parte della sconfinata marea di innumerevoli braccia di ogni angolo di mondo qui confluite per simulare, individualmente ma tutte insieme, la correzione della Torre pendente. In più grazie al cielo, una volta tanto, questa è una foto che non si può scattare come un “selfie”, avendo le braccia impegnate, e richiede un’interazione sociale, il che mi mette ancora più allegria.

Il prato del Campo Santo è un verde mare, puro, intonso. E racconto della Medea di Pasolini e della sua Corinto reinventata attraverso la giustapposizione di Campo dei Miracoli e Aleppo, nella scena in cui Glauce impazzita fugge da questo candore intercluso in cui ci troviamo e si proietta all’esterno del palazzo, ritrovandosi sulle mura della cittadella di Aleppo, con naturalezza di montaggio esemplare e perfetta continuità concettuale. Il pensiero corre alla Siria, che in queste settimane non va più di moda presso l’opinione pubblica.
Ma intanto i miei amici trasmettono gioia, ci raccontiamo capitoli di vite, sono radiosi, li osservo e danno la speranza concreta di un mondo più sorridente e aperto.

Girando torno torno alla Torre, cerco un bassorilievo sulla superficie, strizzando gli occhi per l’abbaglio del sole. Finalmente lo scorgo, appena scolpito da una linea d’ombra. Una meravigliosa rappresentazione del Portus Pisanus, aperto all’approdo e ripartenza di navi e merci, nell’epoca del suo massimo splendore in quanto porto aperto. Lo fotografo incantato, diviene subito per me un’immagine emblematica del periplo che sto compiendo.

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Nota 1

Come scritto in premessa, questa narrazione desidera avere un intento politico.
In alcuni passaggi, mi soffermo sulla bellezza e l’equilibrio ancora oggi leggibili nella ricchezza spaziale delle antiche Repubbliche Marinare, con uno stile narrativo ma senza alcun fine estetizzante o edonistico; bensì con l’idea che essi vadano salvaguardati in quanto testimoni fondamentali di una passata e presente complessità interculturale. La bellezza delle città in cui viviamo mi appare sempre più come un esito di tale complessità, che mi sembra sia stata consentita e generata non certo dalla chiusura, ma dall’apertura alla contaminazione e metabolizzazione culturale di cui le identità si sono nutrite nei secoli, consapevolmente o meno.

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Nota 2

Segnalazione: in seguito a un’accorata e militante lettera della studentessa di lettere Margherita Ciancio agli intellettuali italiani, affinché prendessero posizione in tema di migrazioni, pubblicata da Concita De Gregorio, esiste adesso una petizione. Riporto in calce i link con le informazioni e per le adesioni.
La vicenda: http://www.repubblica.it/politica/2018/06/27/news/_governo_incostituzionale_sui_migranti_l_appello_degli_intellettuali_contro_salvini_e_di_maio-200170173/
L’appello: http://www.officinadeisaperi.it/eventi/contro-la-politica-in-tema-di-migrazioni-appello/