165 // Periplo delle Repubbliche Marinare // Cap. 3 // Porti sepolti e rose dei venti

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Capitolo III

17.06.2018

Pisa

Lasciata dunque alle spalle la piazza del Duomo, passeggiamo lungo vie squisitamente croccanti di brigidini, le famose cialde all’anice che avevo dimenticato in chissà quali meandri di memoria. Scopro solo in seguito che esse presero il nome da alcune suore di Pistoia devote a Santa Brigida; sorrido all’idea di antichi conventi famosi per le produzioni dolciarie e in un lampo capitombolo all’altro capo dello specchio d’acqua tirrenico, verso i frutti di martorana, la pasta riali di mennule, ricetta che si narra inventata dalla badessa Eloisa Martorana in un perduto chiostro della Palermo normanna. E la mente vola ai dolci dei monasteri ortodossi, sulle sponde egee di questo mare. La koiné del biscotto. E passeggiando lentamente chiacchieriamo di vie romane, torniamo a Pisa percorrendo l’Egnatia dall’Anatolia a Brindisi, l’Appia, e infine rieccoci qui, tra la via Aurelia e l’est.

 

 

Tra brigidini e memorie galileiane, riattraversiamo il borgo e partiamo. Seguiamo il corso dell’Arno, accompagnati da platani, lunghe code di macchine bloccate nel traffico in senso opposto, ‘battiali di civette’, invernate sui campi e ponticelli narrati dall’amica A., boschi costieri di un mare che profuma ma non si scorge.

Inoltrandoci nel porto pisano sepolto, il paesaggio si percepisce sottotraccia come ricco di trasfomazioni intercorse. Indossa un vestito, ma suggerisce di averne indossati altri che non esibisce. Verde di pini e dorato di grano, è denso soprattutto di tempo. Sembra riassumere in sé le stagioni. E sembra raccontare senza parole dei capitoli antichi a ritroso, navi medievali attraccate, anfore di vino romano, cocci etruschi e prima ancora lagune mute, attraversate da lente migrazioni di uomini, il silenzio rotto solo da versi isolati di uccelli dallo stesso destino.

Navighiamo in auto, spalle alle Alpi Apuane. Quando mi volto e le scorgo – prore ormeggiate nella luce assorta – dipingono d’indaco il paesaggio.

La sera, attraverso il racconto, viaggiamo tra le paludi Pontine, i campi Flegrei e Pozzuoli. La notte, tra squisite marasche, visciole ed erbe aromatiche.

Mi addormento al dolce sciabordio di navi assenti.

 

18.06.2018

Tirrenia

Dopo un sonno ristoratore, mi sveglio pensando al porto sepolto. Il panorama qui ricorda una savana, lo sguardo può correre orizzontalmente libero sotto le fronde degli alberi, tutti perfettamente potati dai daini fino alla stessa quota, triangolari come vele. È impossibile proibire al mio pensiero di volare alle isole Brioni, in Croazia, dove ci eravamo immersi in un paesaggio analogo, ne posso sentire addosso il profumo e la luce radente come fosse ieri. L’arcipelago giace appena un po’ più a sud, ma la vegetazione è simile. Resto qui a pensare, estendere gli orizzonti, tastare una più ampia latitudine.
La sottrazione dello sguardo che corrisponde a un ampliamento della percezione. Il respiro si dilata, è questa la sensazione di un porto aperto.

Passeggio con P. attraverso la macchia mediterranea. I mirti in fiore risparmiati dai daini a causa dell’aroma dolceamaro, i biancospini assaggiati con prudenza. Gli olivastri, che accarezzo con gli occhi, mi riportano alla mente Vincenzo Consolo e la Sicilia di questa stagione, lontana.

La prima cicala sancisce l’estate.

Dopo pranzo, assisto a un ricongiungimento gioioso di generazioni che si tuffano in un abbraccio, istantaneamente mi ritrovo di fronte un meraviglioso trittico per niente paratattico, che provo a incorniciare in foto.

 

 

Mi sposto in camera a prendere appunti. Dalla finestra, è un tripudio voluminoso la nuvola smeraldo di pini e arbusti mediterranei, che trascorre sul cielo del prato. Il profumo dei campi incolti nel sole. Il vortice di polvere di un trattore lontano mi ricorda “la gonna di Jenny in un ballo di tanti anni fa”, con una goccia all’occhio. La luce calda, a chiazze, è scolpita ad olio come quella di un quadro dei Macchiaoli. La terrazza in disuso sembra una fotografia di Luigi Ghirri. Gli steli gialli e la pergola verde somigliano a una risacca, sospinta da questo vento intercluso del porto interrato. Esco di casa.

 

 

Cammino entro scarpe che giungono dalle acque alte, da indimenticabili episodi veneziani. Hanno viaggiato molto, arrivano da lontano nel tempo e nello spazio, sorridono con me.

Una piscina in cui ha principio e fine il mondo intero. Eccolo, il Mediterraneo che concettualmente continuiamo a nominare Mare Nostrum, che senza ammetterlo ci ostiniamo a definire tale, assisi in una sedia di plastica scolorita. Eppure quella stessa sedia può trasformarsi nel riposo e nelle braccia aperte di una nonna, aperte a una piccola speranza che giochi ridente.

 

 

Torno in casa, un piccolo specchio e un drappo di stoffa mi riportano alla Tunisia dei miei ultimi peripli. La forma stellata mi fa tornare in mente le decorazioni geometriche della Torre Pendente fotografate per il capitolo di ieri. Ancora una volta mi perdo tra le onde del sincretismo mediterraneo, fra le tracce di questa Repubblica Marinara un tempo spalancata sul mare.

 

 

Nel porto interrato non si percepisce il mondo, ma se ne coglie la presenza, il senso spaziale si amplia al globo terraqueo, alla ragnatela dei portolani, ai porti inanellati come collane lungo le rotte, alla Carta Pisana, la prima carta nautica: possiamo accarezzarla dal Mar Nero all’Atlantico, con le due rose dei venti disegnate sull’alto Tirreno e sull’Egeo, possiamo avvitarci seguendo il circolo delle correnti di brezza e onde di questo bacino antico, unitario. E la navigazione notturna, le stelle per misurare questo mare grazie a  sapienze giunte da Damasco a Pisa, con gli astrolabi, con gli occhi, con le braccia. E ruotano i petali dei venti e delle correnti, mentre sboccia e fiorisce anche la rosa della lingua sabir o dei porti franchi.

E saltello fino a Lampedusa, batto il piede sulla costa-impronta della Tunisia, mi inoltro attraverso colline-granaio fino alla fine del mondo, alla “Piazza della rosa dei venti” di Dougga, distesa prima di quell’ultimo arco di trionfo, di fronte a una relativa fine dell’orbe, oltre la quale solo i leoni.

 

Se per la rosa dei venti la piazza
fu incisa al limitare del deserto
sordo orizzonte di terra sgranata
al rimpianto di un mare di pietra

fu una traccia d’indomabile vuoto
per insegnare a immaginare il mondo
lontani dalle schiume, dalle nevi.

Tornammo al giallo e al rosa delle sponde
roccia più antica delle svelte nubi.
Partimmo, pur privati di ogni stella
alla volta del vasto oriente onirico.

(da “Trittico tunisino”, 2017)

 

E inseguendo perdute stelle torniamo indietro nel tempo, dal Medioevo all’età antica, e poi fino alle rotte arcaiche della protostoria, spinte dai primi commerci di metalli, di pietre, e ancora indietro, fino alle migrazioni lungo gli archi costieri o alla volta di fertili isole di vulcani e nominate dai venti.

 

Nel grembo dei concavi fasciami
riluceva appena l’ancora d’argento.
Le notti seguivano notti
barbare alle brume del mare turrito.
Per casa ormai soltanto l’occhio spento
come pesce affogato sulla prora.
Sbarcati tra i resti dei fiumi
zoppicando ci sembrava di lasciare
orme sulla sabbia delle dune infrante.
Fuggendo dagli arbusti, tornavamo
ad affondare i piedi in una torbida laguna
protetta dai cordoni delle spiagge.
Oltre, la schiuma muta del mare mangiava
le nostre polene perdute.
Le stelle erano tutte spostate.

(da “Viaggio metafisico nella Toscana archeologica”, 2016)

 

Dalla finestra traguardo il mare, è una mano di grano nascente, al di là del rovente muro d’orto di questo nostro europeo meriggiare.

Disteso, sento passare qualcuno per strada che parla arabo, l’effetto è straniante, ascolto e visualizzo i grafemi per me indecifrabili come onde.

Aspiro il mare che non vedo, profumato di questa e altre terre, il sale asciugato sulla carta bagnata anni fa a Caorle.

 

 

Vento che entra nella stanza, si mescola agli oggetti presenti con volute e convezioni, attraversa libero le porte (quelle socchiuse si accostano e discostano con suono ovattato d’infanzia, come sciabordio di paratie affiancate lungo una banchina). Passato il corridoio, inonderà tutte le stanze, per metà giornata. Poi, puntuale secondo un ritmo dimenticato, sarà la volta della brezza di terra, frescura notturna, tenera alternanza di soffio reciproco e perpetuo. Sarà alito costante, bava o refolo, palpito tiepido notturno. La casa mediterranea vive di ventilazione incrociata, ci insegna il mutuo scambio.

Si ostinano a chiamarli sbarchi, ma non hanno ormeggio, solo frangersi di legni come schiuma vaporosa.

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